A volte non farsi carico dei problemi degli altri è la scelta migliore: non solo protegge te stesso, ma incoraggia la loro autonomia.
In tutti i film in cui uno dei personaggi sta annegando ce n’è sempre un altro che si tuffa per salvarlo. Ma nella vita reale, se non siamo esperti di salvataggio, si rischia che la persona in difficoltà si aggrappi a noi trascinandoci giù. Il risultato? Si annega entrambi. Fuor di metafora, cercare di aiutare una persona che sta male può rischiare di danneggiarci, facendoci immergere in una spirale di problemi.
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Naturalmente aiutare gli altri è lodevole, finché non si eccede nel farlo. Quando una persona sente costantemente di dover “salvare” chi le sta intorno, anche quando l’aiuto non viene richiesto, si parla di “sindrome del salvatore”. Questa può essere il risultato dell’educazione ricevuta, ma anche dell’errata convinzione di non essere degni di attenzioni se non si fa qualcosa per gli altri.
Lo psicologo Stephen Karpman afferma che la maggior parte delle relazioni umane si svolge all’interno di un “triangolo drammatico” in cui sono presenti i ruoli di vittima, carnefice e salvatore. Il persecutore incolpa gli altri, la vittima si arrende alla propria sofferenza mentre il salvatore pensa di dover risolvere la vita di tutti.
In realtà quasi sempre il salvatore protegge eccessivamente gli altri, soffocandoli e impedendo loro di crescere. Il suo aiuto potrebbe non rivelarsi utile, ma essere semplicemente motivato dall’esigenza di sentirsi una persona buona.
La nostra pulsione a intervenire nei problemi degli altri sostituendoci a loro è dettata in parte anche da un’aspettativa culturale: si pensa che fare qualcosa sia pur sempre meglio di non fare nulla. Invece non sempre è così. A volte le persone non hanno bisogno di un soccorritore, ma solo del giusto spazio per riprendere le forze e andare avanti.
La chiave per risolvere il problema dell’intervenire o non intervenire sta nella differenza tra sostenere e farsi carico. Siamo chiamati a sostenere gli altri, non ad accollarci i loro problemi. L’approccio più sano è la pratica della cosiddetta “compassione con limiti” che consiste nell’ascoltare, essere presenti e offrire supporto emotivo ma mai nel sostituirsi agli altri.
La teoria dell’autodeterminazione sostiene che tra i bisogni psicologici principali dell’uomo ci sia l’autonomia. È proprio questa che viene minata quando una persona si fa carico del peso che un altro dovrebbe portare. In definitiva, le persone crescono quando hanno l’opportunità di affrontare in modo autonomo la loro vita, senza che qualcuno implicitamente dica loro: “Non puoi farlo quindi lo farò io per te”. Affrontando le sfide che l’esistenza pone loro davanti, le persone affinano il loro senso di sé e la loro resilienza, diventando dopo la tempesta più forti di prima.