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Generazione kidult: cos’è e quali effetti può avere?
Un’espressione sintetica che prova a spiegare uno tra i tanti problemi emergenti della società attuale: l“adultescenza”. Cosa si intende con questo termine e quali sono le sue conseguenze?

Il neologismo “kidult” è applicato a tutti coloro che, pur avendo raggiunto biologicamente l’età adulta, presentano un’identità con tratti adolescenziali.

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Con la parola “adultescenza” si indica una complessa serie di fenomeni psicologici, antropologici, sociologici che riguardano oggi un numero crescente di adulti e contesti familiari nei Paesi sviluppati. Nella cultura anglosassone sono stati definiti kidult, ovvero bambini (kid) – adulti (adult); il termine cominciò a circolare negli Stati Uniti già negli anni Ottanta, quando si diffondevano i primi articoli scientifici sulla cosiddetta “Sindrome di Peter Pan” e, nel 1983, veniva pubblicato l’omonimo libro di Dan Kiley. Gli psicologi francesi li hanno chiamati “adulescent”, contrazione dei termini adulte e adolescent.

L’adultescenza, dunque, designa il raggiungimento di un’età crono-biologica adulta, in persona con identità per molti versi ancora immatura con tratti adolescenziali. Ne emerge la figura di un individuo ancora profondamente condizionato dal permanere di idee, atteggiamenti e comportamenti tipici della fase giovanile.

Certamente, nelle cosiddette società evolute, il positivo allungarsi della durata della vita comporta un differimento anche dei traguardi adulti: l’attuale situazione economica di “crisi”, con la difficoltà per le giovani generazioni di reperire attività stabili e sufficientemente retribuite per consentire un progetto di vita ritenuto adeguato, contribuisce nel differire i traguardi ritenuti prima fondamentali per l’ingresso nella vita adulta. Ne consegue spesso la dipendenza economica dalle famiglie di origine, da cui può conseguire a sua volta la dipendenza psicologica e sociale.

Ma non si tratta solo di questo: anche se influenti, questi fattori non sono sufficienti a spiegare e a offrire la chiave di lettura corretta per un fenomeno molto più articolato.

Dal punto di vista antropologico, secondo l’antropologo francese Van Gennep, la transizione all’ età adulta in alcuni individui è avvenuta in modo incompleto, complice il depotenziamento nella postmodernità dei riti di passaggio. Questi hanno sempre rappresentato un dispositivo che aiuta l’individuo a mutare il suo status con l’intervento attivo della comunità; presenti in tutte le culture, ci informano su quali ne siano i valori condivisi poiché sottolineati nel rituale stesso. Accompagnano eventi importanti: la nascita, il passaggio della pubertà, la formazione della famiglia, la morte. Oggi i riti di passaggio appaiono aver subito un depotenziamento, segno che la maggior parte delle transizioni viene percepita come reversibile. Si tratta, più che di passaggi veri e propri, di “attraversamenti” che consentono di tornare indietro, dando modo all’ individuo di mantenere la flessibilità necessaria ad adattarsi alle mutevolezze che la nostra società richiede. D’ altronde ciò che era una risorsa (la solidità identitaria e relazionale) viene percepita come rischio, poiché potrebbe involontariamente condannare l’individuo a un destino di precoce obsolescenza, con l’esclusione da opportunità (lavorative e socio-affettive) che potrebbero affacciarsi all’orizzonte. Ciò che la liquidità implica, dunque, è di esser pronti a cogliere al volo nuove opportunità, sufficientemente svincolati e leggeri da poter viaggiare in ogni direzione. Incapaci di immaginare il prossimo passo, intanto si torna indietro sulla strada già percorsa.

L’ adolescenza, in sintesi, è dura da abbandonare, persiste, e “tende a tornare”, come fosse un momento esistenziale che si può vivere e rivivere. Vi sono anche comportamenti vissuti da adulti che esplicitano il loro desiderio di agire ancora da adolescenti perché a suo tempo non lo si è fatto abbastanza, rivelando così che un’adolescenza incompleta può avvelenare “l’adultità”.

Esiste anche una moda adultescente, stile adottato indifferentemente da bambini, adolescenti, adulti: è il lato “commerciale” del fenomeno. Nell’ ultimo decennio le griffe che producono lo stile kidult hanno avuto una mirabolante crescita di fatturato, arrivando a miliardi di dollari. Cresce in parallelo, soprattutto per i ragazzi e gli uomini, la tendenza a dedicare molto tempo alle attività ludiche, al videogioco.

Lo stile “adultescente” è dunque anche un modo di vivere che il business ha sapientemente intercettato. Il modo di essere “adultescente” include gusti musicali, cinematografici, televisivi, e anche il linguaggio, che da una parte si carica di vezzeggiativi, diminutivi, espressioni affettuose infantili per far sentire eterni bambini, originali, creativi; dall’ altra dell’adozione generalizzata di termini trasgressivi, per essere adolescenti con atteggiamenti anche verbali di rottura.

Il problema però è che l’ “adultescente” permane entro modalità che danno vita a dinamiche sociali e interpersonali che investono la struttura familiare.

I genitori “adultescenti” difficilmente riescono a esercitare le fondamentali funzioni di guida verso i loro figli. E non sono sempre capaci di instaurare un rapporto maturo di “alleanza” con l’altro genitore, anche durante la convivenza. Non si fa fatica a immaginare cosa può conseguirne. Storicamente, quindi, si è passati da una generazione di genitori “autoritari” a una composta da adulti deboli e remissivi, quasi “presi in ostaggio” dai figli che trattano, e da cui sono trattati, da coetanei.

La stessa vita di coppia non può che risentire di uno stile indefinitamente “adultescente” dei protagonisti della relazione. La crisi è vissuta sempre più spesso come distruttiva e non maturativa: sembra perduto il senso della costruzione, della progettualità, che necessariamente passa attraverso fasi di reciproco adattamento perché è un equilibrio sempre nuovo, da ritrovare, sulla base della crescita personale e di coppia; nell’ immaginario di molti, o il partner è funzionale al proprio benessere “qui e ora” oppure non “serve” più ed è meglio dismettere la relazione al più presto, cercare qualcosa di nuovo più immediatamente appagante. Inoltre, quando l’esperienza della relazione di coppia si ritiene conclusa, non vi è spesso nemmeno la forza di cercare i necessari diversi assetti relazionali rispettosi della tutela prioritaria dei figli, soprattutto se minori di età, che sono i soggetti più vulnerabili.

I bambini ne escono lacerati, spesso con ferite profonde nella loro psiche e difficilmente rimarginabili, non sempre comprese dal genitore “adultescente”, accecato dal proprio narcisismo. Vi è ricerca di rivincita e di delega crescente in modo direttamente proporzionale all’ “adultescenza” dei richiedenti. A tutto ciò la società non ha ancora fornito risposte appropriate.

Il nostro sistema di giustizia sulle relazioni familiari risulta, infatti, inadeguato al compito: la famiglia “isola felice” che non deve essere che lambita dal diritto si sta trasformando in un arcipelago investito da tsunami: sia perché l’ attesa dell’adultescente è per interventi “taumaturgici”, sia perché il nostro sistema di giustizia sulle relazioni familiari e le relative leggi sono ritagliate per modelli sociali che non contemplano le nuove fenomenologie.

Parafrasando la battuta di Curt Valentin, mercante d’arte, il futuro dei nuovi cinquantenni non è più quello di una volta. A cinquant’anni tutto sembra poter ancora cambiare, persino la famiglia, che – come abbiamo detto – non è più un’entità data una volta per tutte. Persino l’identità personale non è più concepita in modo rigido: è qualcosa che, sì, porta i segni delle scelte passate, ma è ancora aperta a metamorfosi future. I cinquantenni di oggi sentono di avere ancora una parte della vita da giocarsi pienamente. Il senso delle possibilità offerte dall’esistenza, tipico della giovinezza, resta spiccato. Ed ecco che, in qualche modo, genitori e figli si trovano a vivere una vita parallela. Diversamente giovani e adolescenti entrambi. E così, anche quando hanno dei figli, i cinquantenni attuali non si sentono più soltanto genitori, ma persone con davanti una vita piena di opportunità che possono coinvolgerli a tutto tondo. Insomma, genitori sì, ma “moderni”.

Il rapporto genitori-figli ha cambiato completamente di segno. Non sono più soltanto i figli ad aver bisogno della legittimazione dei genitori, ma sono anche i genitori che hanno bisogno delle conferme dei figli. È come se il riconoscimento e il valore stesso del ruolo genitoriale dipendessero in misura importante dall’approvazione filiale. E questo provoca un rapporto talvolta rovesciato: alimentiamo, nei casi più complicati, un rapporto di sudditanza nei confronti dei nostri figli.

Siamo passati così da un eccesso all’altro: dalla famiglia padrona alla famiglia serva dei capricci filiali. Meglio cedere ai desideri del figlio, piuttosto che sostenere terribili e inconcludenti litigate.  Eppure, come è stato messo in luce da molti psicoanalisti, tra i quali Winnicott, gli adolescenti avrebbero bisogno di confrontarsi con adulti stabili, convinti delle proprie idee, in grado di assolvere in modo fermo il proprio ruolo educativo. Perché nella lotta contro i genitori per far valere il proprio punto di vista, i giovani imparano a riconoscere i propri limiti e a trovare una propria coerenza personale.

La risposta da parte dei genitori è dunque fondamentale: devono restare saldi di fronte agli attacchi del figlio adolescente, evitare rappresaglie che rischierebbero di confermare l’immagine distorta che il figlio proietta sul genitore.

Ma se i genitori tornano adolescenti, perché i figli dovrebbero diventare adulti? Difficile, infatti, immaginare che i ragazzi diventino grandi e maturi, se i modelli di riferimento hanno i tratti del “bonsai”, cioè di una sorta di genitori in miniatura.

Come le piante bonsai che si sviluppano quel tanto che è possibile, dato il poco terreno che sta al di sotto delle radici, questi adulti con funzioni educative restano piccoli, deboli e fragili. E sono quelli che, invece di trovare soluzioni, si aspettano per ogni problema la ricetta magica. Faticano a mettersi in gioco come educatori perché non hanno attrezzi sufficienti o se li hanno non sanno usarli.

È per questa genitorialità sbiadita e inconsistente che si dovrebbero pensare progetti di sviluppo. È alla famiglia dalle relazioni povere e superficiali che bisognerebbe dare appoggio.



 Commenti (1)
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  1. sottileconfine, Roma (Lazio)
    Un'analisi lucida e senza sconti di quella che non può nemmeno più definirsi patologia tanto è comune e diffusa la kidult.


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