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Cent'anni di tuta: storia di un vestito rivoluzionario.
Nel 1920, esattamente cento anni fa, nasce "l'abito a forma di T". Fortune, sfortune e applicazioni contemporanee di un capo d'abbigliamento che tentò di sfidare le convenzioni della moda borghese.

La tuta è un capo d'abbigliamento, costituito da un solo pezzo, che ricopre tutto il corpo. Pronunciando questa parola oggi, ci vengono in mente prima di tutto le tenute da lavoro degli operai oppure l'abbigliamento, in uno o due pezzi, degli sportivi. Ma dove e perché nasce la tuta, e quali sono le sue possibili applicazioni nello stile contemporaneo?

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La tuta è figlia del futurismo. Nel 1920, l'artista italiano Ernesto Michahelles (in arte Thayaht) e il fratello Ruggero (in arte Ram) inventano un capo da uomo con cintura e tasche pensato per la vita quotidiana, dalle forme semplici ed essenziali, dai costi contenuti e dalla semplice realizzazione: è la "TuTa", adattamento dal francese tout-de-même, "tutti uguali". Il nome, inoltre, alludeva alla forma stessa del vestito: la T era la forma disegnata dalle maniche e dal corpo, mentre la U corrispondeva ai fianchi ed al cavallo. Il nuovo abito era pensato per contrapporsi allo sfarzo della moda borghese dell'epoca, e per questo vuol essere il capo comunitario, moderno e rivoluzionario per eccellenza.

Thayaht e Ram non inventano solo il modello, ma danno luogo anche a una delle prime campagne di comunicazione di stampo contemporaneo, coniando il motto "Tuttintuta!". Per propagandare la nuova invenzione, con strategie che anticipano le azioni di guerrilla marketing, girano un film di otto minuti che mostra le vie di Firenze invase di figuranti che indossano la tuta: ben cento persone, bambini compresi.

Al contrario delle previsioni dei due artisti, la tuta non ebbe grande successo come capo d'abbigliamento quotidiano, divenendo invece un modello utilizzatissimo di abito da lavoro. Venne infatti utilizzato come elemento di protezione per gli operai, in particolare per i metalmeccanici, tanto che questi finirono per essere definiti, iconicamente, "tute blu". Particolari tute andarono a far parte dell'abbigliamento militare o sportivo.

Quasi completamente uscita di scena negli anni '50 e '60, la tuta ricompare negli anni '80, quando streetwear e couture si incontrano per la prima volta. Designer come  Martin Margiela, Ann Demeulemeester, Dirk Bikkembergs e gli stessi stilisti "classici" Nino Cerruti e Giorgio Armani donano al vecchio capo, con le sue quattro tasche e il suo taglio unico, una seconda vita sulle passerelle di tutto il mondo.

Intanto è già nata la versione a due pezzi, resa famosa da iconici film come L'ultimo combattimento di Chen, con Bruce Lee, e più tardi Kill Bill (che riprende la tuta a mo' di omaggio). I giovani degli anni '90, attratti dalla scena Hip Hop e dalla Breakdance, iniziano a sfoggiare le loro tute anche fuori dall'ambito sportivo. Una delle preferite è Adidas, la famosa tuta a strisce lanciata nel '64 e di larghissima diffusione sul finire del secolo. Anche nell'ambiente pop-rock diventa comune vedere cantanti in tuta sul palco (sempre nella versione a due pezzi, o anche con i soli pantaloni abbinati a una t-shirt).

E oggi? L'abito monopezzo sembra tornato a occupare un posto nella vita quotidiana delle donne. Si tratta di un abito estivo, di norma leggero e senza maniche, che va dai modelli più casual e svasati fino a diventare un capo prezioso, di stile, e addirittura un abito da cerimonia. Abiti da sposa in versione tuta sono scelte poco comuni e indubbiamente sexy per il "giorno più bello". I materiali e le fantasie a disposizione sono i più svariati: raso, seta, lino, tinta unita o a stampe (floreali, pois, etniche e non solo).

Nelle sfilate da uomo primavera-estate 2020 non sono mancati, in passerella, modelli con felpe sgargianti, nei toni del blu e dell'arancione o che riprendono grafiche "pop".



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