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Il lavoro che facciamo definisce chi siamo?
Il lavoro è un mezzo di sussistenza, ma non solo: spesso diventa parte della nostra identità. Ma cosa dobbiamo fare quando sentiamo che il nostro mestiere è riduttivo nel descrivere l’insieme della nostra persona?

Una delle primissime domande che si fanno a una persona appena conosciuta è: “che lavoro fai?”. Non è un caso: il lavoro rappresenta per tutti noi il modo principale che abbiamo di partecipare alla vita sociale, di inserirci nella società. Racconta anche tanto di com’è la nostra vita quotidiana: la vita di un addetto alle pulizie che si sveglia alle quattro di mattina non è troppo simile a quella di un barista che alle quattro di mattina, forse, va a dormire; le vite di un insegnante, di un infermiere, di un negoziante hanno molte differenze a livello di orari, di interazioni con le persone, di ferie e così via. Tempo fa si diceva che i siti di incontri potessero avere un enorme potenziale per il fatto di non avere orari predeterminati come potrebbe averli un locale: qui un addetto alle pulizie e un barista potrebbero conoscersi e parlare tra loro come non farebbero, forse, in giro per la città -dati gli orari così diversi.

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Questo ovviamente è l’aspetto più superficiale; il lavoro che facciamo racconta tanto di noi anche in altri modi. Può parlare dei nostri sogni, della nostra “missione” in questa terra e persino rivelare tratti del nostro carattere. Intorno ai mestieri circolano tanti stereotipi, che possono anche avere un fondo di verità: il barista è aperto, simpatico, divertente; il musicista tende ad essere timido; e così via. 

Ma l’importanza del lavoro come definizione della persona è, all’interno della nostra società, decisamente sproporzionata. Infatti il mestiere che svolgiamo, a prescindere dal fatto che possiamo amarlo o meno, rappresenta solo una parte della nostra esistenza. L’idea che ciascuno di noi debba identificarsi con il ruolo che ricopre nella società, venendo giudicato sulla base di ciò, rende poca giustizia all’insieme delle nostre peculiarità. Alcune persone, consapevoli del problema, cercano almeno a livello linguistico di scindere le cose: “fare il medico” anziché “essere un medico”, ecco la chiave. Sono quelle stesse persone che magari preferirebbero presentarsi parlando dell’attività per la quale provano più amore: “faccio il medico ma sono un volontario in canile”; “faccio il medico ma sono uno scrittore”. 

Il problema emerge ancora più eloquentemente nei disoccupati oppure in chi odia il proprio lavoro, non ritenendolo utile alla società o gradevole per sé. Dostoevskji affermava che se si vuole trasformare un uomo in una nullità, non si ha da far altro che rendere inutile il suo lavoro. Confinare un lavoratore in una stanza e dargli solo compiti inutili è a tutti gli effetti una forma di mobbing, e tra chi ha un contratto a tempo indeterminato è una violenza non infrequente. Il dolore di chi sente che il proprio mestiere non gli è utile a conquistare la considerazione sociale che desidera è pienamente comprensibile e scoperchia una serie di questioni di non poco conto. Davvero il lavoro è l’unico modo che abbiamo di partecipare alla vita sociale? 

Il lavoro ha due grandi significati per noi: ci permette di vivere una vita dignitosa grazie allo stipendio e soprattutto ci garantisce la “stima” di cui abbiamo bisogno. Ma le due cose non sempre vanno di pari passo. Ho amici artisti che vivono costantemente al di sotto della soglia di povertà, eppure continuano imperterriti nel loro lavoro, perché lo amano e soprattutto perché attraverso di esso ricevono l’ammirazione e la stima del pubblico; ho anche amici che fanno un lavoro che detestano solo per portare a casa lo stipendio e si inseriscono poi nella società in tutt’altro modo – attraverso lo sport, ad esempio. 

Forse la chiave sta proprio nel prendere coscienza di questa discrepanza tra le due necessità e renderci conto che non sempre il lavoro riesce a garantirle entrambe. Quindi il nostro mestiere non ci definisce, se non siamo noi a desiderare che lo faccia.



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