Fare nulla è un problema o piuttosto una condizione naturale e necessaria? Pensiamo agli animali: quasi tutti dormono più ore rispetto a noi umani e tutto il tempo che non impiegano a procacciarsi il cibo lo trascorrono a giocare, farsi le coccole e soprattutto giacere pigramente. Nella natura, il fare e il non fare sembrano avere la stessa importanza.
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Siamo noi esseri umani che, per via del nostro cervello così sviluppato, proprio non ce la facciamo a stare tranquilli: difficile per noi avere un tempo totalmente vuoto, segnato dal non agire né fisico né mentale. I romani esaltavano l’otium come un “grado zero” dal punto di vista dell’attivazione fisica ma ricco dal punto di vista del pensiero. Ma oltre all’otium, che è comunque costruttivo e per gli artisti rappresenta in realtà un momento di lavoro, è tempo anche di rivalutare anche l’ozio, apparentemente inutile.
L’utilità dell’ozio in realtà esiste, ma è veramente particolare: esso non è una “pausa di riflessione”, un momento di studio, un convivio, ma è piuttosto la siesta, la proverbiale pausa della “controra” che contraddistingueva e ancora impronta in qualche caso le nostre estati italiane. Questo rende l’oziare, a suo modo, un momento libero e creativo: un tempo in cui mettiamo in pausa i nostri sensi e così facendo li alleniamo ad essere più recettivi.
Il dottor Alex Soojung-Kim Pang, esperto in gestione del tempo e noto consulente del lavoro, ha scritto un libro dal titolo eloquente: “Riposo: perché ottieni di più quando lavori di meno” (Rest: why you get more when you work less). Da più parti, negli ultimi anni, si elevano voci a far notare che ridurre il lavoro per intensità e durata significa incrementare l’efficienza e quindi il risultato complessivo. Nei contesti dove è stata sperimentata la settimana lavorativa di quattro giorni non si sono notati problemi di produttività e questo spinge a pensare.
Il lavoro, secondo la Bibbia, è la maledizione dell’uomo, la sua punizione per aver disubbidito a Dio. Non è un caso che in alcune lingue, come ad esempio nello spagnolo, lavoro si dice “trabaho”, dalla stessa radice di “travaglio”, sofferenza. Però tra l’accettare di dover lavorare per vivere e lo stacanovismo immotivato (o peggio: ideologico) c’è un abisso.
Da qualche decennio i ragazzini non giocano più per strada o passano semplicemente i pomeriggi in casa, ma sono continuamente spinti a fare qualcosa: corsi di musica, di calcio, di lingue, di teatro… questo, e il generale ritmo caotico della vita moderna, hanno allevato una generazione sempre più “skillata” ma più intollerante alla noia. E sono molti gli psicologi che oggi dicono ai genitori: permettete ai vostri figli di annoiarsi, perché li renderà creativi.
Parliamoci chiaro: i grandi romanzi, i romanzi-fiume che oggi non si scrivono più e si fa sempre più fatica a leggere, sono il frutto di una civiltà della noia, creati nell’otium e da gustare nell’ozio. Questo basterebbe a renderci conto che la noia ci permette di godere dei piaceri più profondi e complessi, di pensare i nostri pensieri più bizzarri o più alti, e non basta come oggi si fa sedersi un momento e fare meditazione. Il massimo è arrivare a un punto in cui non si sa davvero più che cosa fare del tempo che si ha, ed è lì che nasce la scintilla per cercare nuove strade.