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Cos'è Kintsukuroi, l’arte giapponese che può aiutarci a migliorare il nostro benessere
Un’antica arte giapponese di restauro è diventata negli ultimi anni una metafora perfetta per la “ricomposizione” della vita di chi esce da un trauma. Ecco perché il kintsukuroi, o kintsugi, sta vivendo una stagione di grande popolarità in Occidente.

Il kintsukuroi, meglio noto al pubblico come kintsugi, è una tecnica giapponese che consiste nel riparare gli oggetti rotti ricomponendo i frammenti con l’aiuto di una lacca dorata. Si tratta di una vera e propria arte del restauro, applicata principalmente agli oggetti in ceramica, che ha origine circa 600 anni fa.

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L’idea che sta alla base del kintsukuroi come arte è che riparando le crepe con l’oro si metta in evidenza il gioco casuale, e per questo unico, delle linee di rottura dando vita a un oggetto “nuovo” ed estremamente originale. La tecnica kintsukuroi, come molte altre in Giappone, ha le sue radici nella filosofia Zen che la eleva a qualcosa di più di un semplice metodo di restauro: il concetto di mushin (senza mente) indica la capacità di lasciar correre se qualcosa va storto, come nel caso di un oggetto che si rompe; anitya, l’arte di accettare la fine delle cose alle quali siamo affezionati; mono no aware (empatia verso gli oggetti) che porta ad apprezzare la fragilità del mondo con i suoi abitanti animati e inanimati.

Negli ultimi tempi in Occidente l’attenzione nei confronti del kintsukuroi è cresciuta enormemente, rendendo questa arte popolare soprattutto come metafora di processi psicologici di auto-guarigione. Non è un caso che uno psicologo, il dott. Tomas Navarro, abbia scritto un libro dal buon successo di pubblico intitolato: "Kintsukoroi. L'arte giapponese di curare ferite dell'anima".

L’interpretazione psicologica del kintsukuroi è interessante: l’idea è che le ferite dell’anima non vadano coperte, quindi negate, bensì valorizzate e reintegrate in un nuovo sistema di vita. L’idea di Navarro è infatti che ci sia una grande differenza tra il semplice riparare e il ben più interessante ricomporre. Ricomporre un oggetto (o un’anima) come un maestro kintsukuroi significa ricreare e ricrearsi, trovando “posto” anche alle parti mancanti, perse o danneggiate irrimediabilmente.

Il processo del kintsugi non può prescindere, nella ceramica come nella psicologia, da un momento profondamente creativo nel quale si va a caccia del vero senso della rottura, ossia del dolore, e del modo migliore per reintegrarlo nel sistema.

Gli antichi giapponesi erano convinti che nascondere le fragilità delle cose, come tendono ancora oggi a fare i restauratori in Occidente, significasse privarle di valore. Evidenziando i punti di rottura, invece, si dà a intendere che l’oggetto è molto solido e forte, di ottima qualità e in grado di resistere alle sollecitazioni più potenti: trasformiamo tutto questo discorso in qualcosa di riferito alla resilienza mentale e capiamo perché il kintsukuroi ha tanto da dirci ancora oggi. La negazione dei problemi rappresenta di fatto il principale ostacolo a una loro soluzione definitiva: la prima lezione del kintsukuroi è proprio smettere di evitare di affrontare i problemi e guardare in faccia la realtà, senza vergogna.



 Commenti (1)
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  1. cri_cri62, Udine (Friuli-Venezia Giulia)
    E sì, sempre pensato.. Le fragilità vanno valorizzate perché intanto presuppongono l'esistenza di un'anima oltre che di un corpo e poi perché esaltano la nostra unicità. Altro che vergognarsene... come fanno in troppi!


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