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Parlare delle emozioni non basta: quando la catarsi diventa una trappola
Limitarsi ad aprirsi sui propri problemi senza agire per contrastarli può essere una paradossale confort zone.

Avrete conosciuto delle persone che non si tirano indietro quando è ora di parlare delle loro ferite e dei loro traumi. O forse, quelle persone siete proprio voi stessi. Siete in grado di scavare nel vostro passato, di vedere i pattern che guidano le vostre azioni, di conoscere il vostro stile di attaccamento come fini psicologi e di comprendere le ragioni dietro alla vostra paura dell’abbandono. E sapete parlare di queste cose con tutti, con gli amici empatici e in ascolto, col vostro terapeuta, persino con uno sconosciuto un po’ troppo curioso.

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Ma perché, allora, i problemi continuano a esserci? Perché gli stessi blocchi, gli stessi circoli viziosi avvelenano la vostra vita? Non bastava diventare consci delle difficoltà per risolvere tutto?

Per prima cosa va chiarito che parlare delle proprie emozioni non equivale a elaborarle. Una persona può essere consapevole di avere subito un abuso nel proprio matrimonio, ma può non essere consapevole della necessità di rompere il ciclo lasciando il partner; una persona può essere cosciente di avere una paura folle dell’abbandono, e tuttavia continuare a cercare compagni sfuggenti e traditori.

Esprimere le emozioni è il primo passo. Ma anche fermarsi a questo può diventare una zona di confort, una forma di resistenza al cambiamento. Parliamo dei nostri problemi perché non sappiamo come risolverli, o forse non lo vogliamo.

Questa difficoltà a passare dal pensiero all’azione è normale per il nostro cervello. Ci sono diverse ragioni:

  • Siamo ossessionati dal trovare schemi e spiegazioni. Per questo ambiamo a razionalizzare tutto, a dare un nome alle cose. Ciò non significa però riuscire a modificare lo schema che stiamo attuando.
  • La nostra mente è a risparmio energetico. Riflettere “costa” molto meno che agire.
  • Ciò che conosciamo già ci dà un senso di tranquillità, anche quando la nostra situazione è veramente scomoda o addirittura terribile.

La razionalizzazione, in ultima analisi, potrebbe essere solo l’ennesimo meccanismo di difesa.

Che cosa fare allora? È facile a dirsi, un po’ meno a farsi. La strada è passare dalla parola all’azione, dalla narrazione al sentimento. Non è solo dirsi “sono triste” ma permettersi di vivere la tristezza per elaborarla e trasformarla. Non è solo riconoscersi terrorizzati dall’abbandono, ma permettersi di vivere la solitudine anche se fa tremare. Il vero cambiamento richiede azione, anche quando questa non dovesse andare in porto al primo tentativo.

Il vero pericolo del raccontare le emozioni anziché rischiare di viverle è trincerarsi in una gabbia con sopra scritto: “Io sono questo, io sono così”. Etichettarsi, non permettersi di andare oltre. Se non si osa, se non ci si incammina, non si potrà mai arrivare a dire “Io ero questo, io ero così”.

In conclusione, va benissimo parlare dei propri problemi perché questo è il primo passo da cui si genera ogni cambiamento. Il punto è non fermarsi lì, ma andare oltre, raccogliendo tutte le proprie armi mentali e ingaggiando battaglia contro gli ostacoli.

Vi è mai capitato di aprirvi molto sul vostro passato e non riuscire a fare niente perché il futuro fosse diverso? Se è così, provate a individuare una piccola azione che potrebbe mettervi sulla strada giusta. Avete fatto il primo passo, ora è il momento di fare il secondo.



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